
di Mario Frongia
Il Papa della sincerità. Degli ultimi, dei dimenticati e dei disperati, come hanno sottolineato in tanti. “Un pontefice rivoluzìonario” ha scritto l’arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi. Jorge Mario Bergoglio se ne è andato. Dopo 38 giorni di ospedale e una feroce polmonite bilaterale che pareva avergli concesso i supplementari. Le dimissioni dal Gemelli parevano ridare un filo di fiato. Quindi, a Santa Marta. Giorni da combattente. Una sorta di piccolo grande tunnel tra forza e speranza. Alla sua maniera: attivo, eroico, coraggioso. Tra detenuti, volontari, periferie. Ma la luce si è spenta. Un ictus, battono le agenzie. Il dolore universale è fortissimo, quasi accecante. Acuito dall’averlo visto raccogliere le forze per stare un’ultima volta tra i fedeli, la sua gente. Quasi sapesse. Con un Urbi et orbi pasquale intenso e devastante. Che richiama ancora una volta alle responsabilità dei signori della guerra. È stata la sua apparizione finale. Papa Francesco, l’uomo di quanti vivevano nel bisogno e nel disagio, tra sconfitte e diritti negati, con sofferenze ed errori da alleviare. Sempre diretto, lontano da facili retoriche, suppliche rimasticate e in affanno. È stato anche il Papa dello sport e del calcio, soprattutto. Quel suo San Lorenzo, le magie degli argentini e i tanghi pallonari dei sudamericani in genere. Terre di fatica, senza discese né scorciatoie. Uno sguardo fiero, che sapeva e andava oltre. A Cagliari nel settembre 2013, da sei mesi sul soglio di Pietro, ha compiuto la prima visita del pontificato. Le preghiere alla basilica della Madonna di Bonaria, una manciata di minuti d’auto dal centro, come prima tappa sarda. In silenzio e preghiera. Poi, il monito: “Non datevi per vinti, non fate vincere il pessimismo”. La perdita è straziante.