
di Alberto Bortolotti – Consigliere USSI (da www.panathlon-international.org)
La Val Pusteria e la Val Gardena incubatrici del fenomeno Sinner. Quelle parole del 2018 alla RAI bolzanina: “Sarò numero 1”. Prende per mano i compagni e li porta sul tetto del pianeta. Drop shot, un tocco di poesia nei progressi di Jannik. Il senso di squadra cresciuto in femmine e maschi. L’impresa “oscurata” delle ragazze in Billie Jean King Cup
Gli excursus personali in Alto Adige, o Sud Tirolo come preferiscono, forse ancora, gli autoctoni, partono negli anni ’60 con i viaggi, assieme ai miei genitori, all’Ippodromo di Maia, Merano dove si correva un gran premio – di galoppo – che era pure legato a una Lotteria di Stato: e mio papà Rino lo raccontava per i lettori di Stadio. Il lungo Passirio, all’epoca, pullulava – era settembre – di chioschetti per la traubenkur, ovvero il succo d’uva come fatto terapeutico: roba da corti ottocentesche, Merano era davvero un luogo senza tempo. Successivamente, quando cominciai a lavorare anch’io, fine anni ’70, scoppiò la moda, spinta dalle Aziende di Promozione Turistica, di invitare i giornalisti agli “educational tour”; la terra al confine con l’Austria, a pochi decenni dalle bombe irredentiste di Eva Klotz, aveva un sacco di soldi da investire nel turismo. Ricordo l’urlo degli “ultras” del Brunico di hockey su ghiaccio, “Fohr, fohr, Bruneck tor”, la scoperta di knodl, kaminwurzen, kaiserschmarren e ogni altro ben di Dio, i vecchietti dei paesi che, in un italiano stentatissimo, spingevano i figli a dominarlo meglio, un legame di sangue “più con Bavaria che non con austriaci”, mi disse un frequentatore di stube a Rasun, e perfino qualche discesa dagli impianti di Sesto in Pusteria.
Ecco, più o meno in questo Tirolo nasce il bimbo della famiglia Sinner. Che avrebbe potuto essere il n. 147 della classifica di slalom gigante della FISI (o una buona C di calcio da mediano, modello Ligabue) e invece, per fortuna, sceglie di avere l’obiettivo di fare il numero 1 della classifica mondiale di tennis (e il più forte tennista della storia italiana, già, a 23 anni). Espone tutto ciò con grande chiarezza al collega Daniele Magagnin, giornalista bolzanino, dopo un (parziale) insuccesso (chi lo batte è tale Peter Heller, tedesco, career high 273 del mondo) nel Challenger di Santa Cristina in Val Gardena che lo avrebbe portato entro le prime 900 (!) racchette del globo. Era il 18 agosto 2018. “Il mio sogno è diventare numero 1 al mondo e vincere tanti slam”, afferma con apparente sicumera dopo avere raccontato che il modello suo è Andreas Seppi (sudtirolese come lui, Daviscupman azzurro, numero 18 del ranking nel 2013). Poi vince l’ITF a Bergamo, ringraziando pubblicamente i raccattapalle (non è cambiato !). Si pone anche il problema di essere apparso troppo “baldanzoso”, tanto da confidare a un amico “non sono uno ‘sborone’, ma semplicemente una persona che si pone un obiettivo”. Ed è, credo, il debutto assoluto nell’uso di un termine che è tanto bolognese quanto romagnolo, prima dei tortellini della mamma del suo ex fisioterapista, l’anzolese Jack Naldi (quel brodo, per tanti motivi, non viene più degustato. Ed è anche triste, ma giusto).
La sua pacatezza, il suo essere “capitano” silenzioso, premuroso, affettuoso, riconoscente lo rende grande tanto quanto la varietà di colpi messi ora insieme: ultimi arrivati, un drop-shot (che bello il termine inglese al cospetto del banale ‘palla corta’) mortifero e un servizio se non di livello assoluto, almeno notevole. Con la fusione di queste doti non era impossibile pronosticare il bis del successo di Davis e nemmeno la ricrescita di Matteo Berrettini, doppista di buona levatura, meglio di Jannik (il doppio non è la somma di due singolaristi, giova ricordarlo) ma soprattutto portatore di tre punti su tre match: un ri-boom figlio anche dell’attenzione da fratello che gli ha dedicato Sinner. E pazienza se il fragile Musetti del primo giorno a Malaga non si è potuto riscattare o alla solidità del doppio Bolelli-Vavassori non è stato consentito di palesarsi. Il “gestore” Volandri non ha – quasi – sbagliato un colpo.
Se possibile, le ragazze hanno fatto un’impresa, nella Billie Jean King Cup, molto più titanica. Non c’era una numero 1, non c’era un precedente (ok, c’era, ma lontano nel tempo e, Errani a parte, con altre protagoniste), mancavano exploit “alla Sinner” nel circuito. Eppure la promozione della Bronzetti a numero 2 del team azzurro, scavalcando la più titolata Cocciaretto, la grande combattività della Paolini, pur sempre numero quattro del mondo, il senso di squadra di Sara Errani e la grande pacatezza della capitana non giocatrice “Tax” Garbin hanno fatto centro. L’unico peccato è che i grandi media tv non ci abbiano creduto, ma le ragazze, terze nel ranking mondiale, hanno fatto quell’upgrade frutto soprattutto di un gruppo intoccabile come il cemento.
La racchetta, nel mondo, parla italiano. Per il mondo sportivo è una soddisfazione indicibile. Il senso del gruppo dei team maschile e femminile è superiore a quello di Cucelli/Del Bello 1 e 2 (immediato dopoguerra), Pietrangeli/Sirola/Tacchini/Gardini/Merlo (anni ’60), Panatta/Bertolucci/Barazzutti/Zugarelli (Cile ’76) e Vinci/Errani/Pennetta/Schiavone (Fed Cup 2013). Le nuove generazioni avranno tanti difetti ma, essendo fatte di gente più normale, meno originale, per nulla pazzerella, forse troppo formattata, fanno meno fatica a mettersi dietro la bandiera. Sono ottimista.
Perché? Voglio raccontarvi un segreto: non è finita.